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di Cristóbal Soage
24/09/2021 - Nel suo secondo film, il colombiano Juan Sebastián Mesa scambia la città con la montagna e offre una storia che riesce a essere universale pur guardando alle peculiarità di un luogo unico
Cinque anni fa il regista colombiano Juan Sebastián Mesa sorprendeva con un primo film solido come una roccia e agile come un uccello. Los nadie, vincitore del premio principale alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia nel 2016, era il ritratto di un gruppo di giovani intimiditi dall'immensità della città di Medellín, tanto vibrante quanto violenta. In La roya [+leggi anche: trailer scheda film ] , presentato nella sezione New Directors del 69° Festival di San Sebastian, l'ambientazione è opposta, un paesino sperduto tra le montagne di Antioquia. Il luogo è protagonista insieme con Jorge (l'eccellente Juan Daniel Ortiz), un giovane che gestisce la piantagione di caffè ereditata dai suoi genitori e si prende cura del nonno, un uomo costretto a letto la cui lucidità svanisce lentamente e irrimediabilmente.
Fin dal primo secondo, la macchina da presa di Mesa cattura con attenzione e maestria la bellezza del suggestivo paesaggio in cui si svolge la vita del protagonista. Jorge è uno dei pochi ragazzi della sua età che ha deciso di rimanere nella sua terra e di non lasciarsi sedurre dalle sirene della città. Lì la sua vita trascorre monotona, dedito a un lavoro logorante che non viene mai giustamente ricompensato e trovando distrazione nella relazione carnale che intrattiene con la cugina. Arrivano le feste di paese, e i vecchi amici che hanno deciso di lasciare la campagna tornano per ritrovarsi e festeggiare in grande stile. Incontrare persone del suo passato, inclusa la sua ragazza dell’adolescenza, risveglia in lui una serie di turbolenze che minacciano la sua stabilità, gli fanno ripensare al suo posto nel mondo e resuscitano fantasmi mai sopiti del tutto.
Come accadeva nel suo esordio con la grande città e i ragazzi che la abitano, qui la montagna e il suo solitario abitante si fondono per diventare due espressioni della stessa. L'esuberanza e la bellezza del paesaggio si sposa perfettamente con la forza e la sensibilità del ragazzo, una presenza portentosa che trasforma la terra per farne emergere i suoi frutti, ma la osserva anche con attenzione e rispetto per cercare di capirla e, di conseguenza, riuscire a scoprire se stesso.
La fotografia di David Correa Franco, già presente nel precedente lavoro di Mesa, cattura con maestria e delicatezza la sorprendente forza naturale dell'ambiente. Un lavoro di montaggio tanto delicato quanto tagliente fa il resto per far fluire il film in maniera organica, lasciando che lo spettatore si lasci trasportare da un ruscello apparentemente calmo, ma cosparso di turbolenti vortici che minacciano di trascinarci nel buio più profondo.
Nonostante le ombre minacciose che si nascondono ai margini, questo non è un film che calca la mano sul drammatico o sul potenzialmente violento. Al contrario, il talento di Mesa riesce a dare vita, con una storia ambientata in un luogo specifico e molto particolare, e con un protagonista insolito, a un racconto universale e luminoso che racconta quella che potrebbe essere la storia di milioni di giovani in vari angoli del pianeta. Una lotta tra tradizione e modernità, tra un progresso che non dà i frutti promessi e un passato che non si libera dalle catene che gli impediscono di far nascere un mondo nuovo, capace di riconciliare queste due forze antagoniste. Il film è, insomma, un secondo passo compiuto dal regista colombiano nel suo cammino verso l'apice del suo mestiere: un luogo di frutti succulenti che resistono alla più virulenta delle piaghe.
La roya è una coproduzione tra la colombiana Monociclo Cine e la francese Dublin Films.
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