Rimini: paradiso ed inferno della bici - Riminiduepuntozero

2022-09-04 12:36:16 By : Ms. Zoe Liu

Da una parte un entroterrra meraviglioso, dall’altra la guerra quotidiana sulle strade della metropoli costiera. Il tutto condito da grottesche ciclabili, cittadini e autorità pedanti. Soluzioni? Nessuna, perché le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni.

Andare in bicicletta è una delle cose per cui val la pena vivere. La bici è un mezzo di trasporto, di pratica sportiva e di divertimento perfetto. E’ ecologica, non consuma, non disturba, si adatta alla condizione fisica di chi la usa, è semplice da usare e riparare, mantiene in buona salute e aiuta ad elaborare il pensiero. La bicicletta e la navigazione a vela hanno rappresentato l’apice della civilizzazione occidentale, poi sono state soppiantate dai motori a scoppio e sono iniziati i problemi, ma questa è un’altra storia. Per chi va in bicicletta la Romagna è un paradiso. Ci sono strade e salite di una bellezza struggente; si può ancora osservare – in alcuni scorci – un paesaggio armonico, dove la convivenza tra le attività dell’uomo e la natura rasentano la perfezione. In giornata si può giungere in Toscana e nelle Marche (la “panoramica” del San Bartolo dovrebbe essere dichiarata patrimonio dell’umanità…). A chi conosce le strade ed è un minimo allenato le valli aprono i loro segreti. E su in alto c’è il Carpegna su cui si è forgiato il campione più amato di tutti i tempi, che diceva appunto “il Carpegna mi basta”. Gli altri si allenavano su Alpi, Dolomiti, Sierre e Cordigliere. Al nostro magnifico e tragico Marchino bastava il Carpegna… E un po’ più in basso si ergono le tre penne del Titano che, percorso in bicicletta, perde la sua connotazione di “paese dei balocchi” per assumerne quella di terra solida e arcaica. E ovunque, quando sei in alto, basta girare la testa per vedere la distesa del mare che da striscia azzurra si allarga fino a diventare infinito. Per entrare in questo paradiso basta, anche ai meno allenati, avventurarsi sulla ciclabile del Marecchia, percorribile con ogni mezzo e ad ogni velocità, per capire che sì, la bellezza e l’armonia sono ancora possibili. Ma ad ogni paradiso fa da contraltare un inferno. Un inferno a dire il vero non troppo terribile, anzi spesso simpatico, brulicante di esseri umani indaffarati in millanta attività per cui, a seconda del giudizio di ognuno, val la pena vivere. Questo Inferno è la grande metropoli costiera che va da Cattolica a Ravenna (o viceversa) e che a Rimini raggiunge la sua massima espansione. In questo inferno la convivenza tra milioni di mezzi di trasporto – dai mastondontici tir ai minuscoli monopattini, e non va dimenticata la saltuaria e folkcloristica presenza di “apecar” e trattori – è diventata pressoché impossibile. Le amministrazioni, con volontà, cercano soluzioni, ma è risaputo che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Quindi negli anni abbiamo assistito alla proliferazione di piste ciclabili urbane che, a parte alcune lodevoli realizzazioni, sono grottesche parodie di strade sicure ed utilizzabili.

Gli esempi di queste farsesche opere sono infiniti. Limitiamoci ai più noti. La prima ciclabile del lungomare gnassiana è talmente ridicola, soprattutto nel senso di marcia Palata-Riccione, che è diventata esempio mondiale di cosa non sia una ciclabile. La ciclabile di parco Cervi è un vero girone dantesco, quando la affronti deve affidarti alla Madonna del Ghisallo. Il sottopasso della ferrovia inghiotte ciclisti, monopattinisti, pedoni, cani ed uscirne vivi significa che sei un predestinato alla vita eterna. La salita e la discesa del ponte di Mordor (quello sopra via Roma) costringono povere vecchiette e tutti coloro che non hanno la potenza e l’abilità di una maglia rosa a penose ascese, prodromiche di infarti e altre penose malattie cardiocircolatorie. Questo tentativo di normare la naturale anarchia provoca poi uno stato d’ansia totale e perenne in tutte le categorie che lottano per conquistare un bene ambitissimo: poter procedere sul suolo pubblico, che sia strada, marciapiede, lungomare, vicolo o tratturo. E’ la guerra di tutti contro tutti: il pedone maledice ciclisti e monopattinisti, il ciclista inveisce contro monopattini e auto. Il monopattinista se ne frega perché è impegnato a guardare il telefonino. L’automobilista odia tutti. Questo clima di guerra civile permanente viene aggravato dalla figura più nefasta: il pedante. Il pedante può essere un cittadino o un’autorita. Il cittadino pedante è quello che comincia ad inveire se percorri una ciclabile in senso contrario o se un pedone o un ciclista per un nanosecondo invadono una zona di marciapiede riservata ad altri. Di solito si tratta di persone anziane, sempre quelle, quelle che sfracellavano i maroni se da lontano vedevano qualcuno senza mascherina. Vederli in azione ti fa comprendere come nel mondo siano possibili le dittature, che sono sostanzialmente una maggioranza di pedanti guidata da un leader allucinato. L’autorità pedante è di solito rappresentata da un vigile urbano che minaccia improbabili multe a chiunque osi contravvenire all’oscuro disegno della viabilità cittadina redatto in tenebrosi uffici comunali. L’apoteosi dell’autorità pedante l’ho vista all’opera due giorni fa. Una nutrita pattuglia di vigili inseguiva e rimbrottava chi in bicicletta osava percorrere i nuovi lungomare sulle preziose doghe in legno brasiliano, riservate – c’è anche un’ordinanza comunale ad hoc – ai pedoni. Peccato che a pochi metri dal prezioso lungomare e dai ciclisti fuorilegge ci fossero almeno tre pattuglie di spacciatori, con relativi covi che tutti conoscono, e due gruppuscoli di sbandati che dormivano per strada tra vomito, piscio e sangue. Ma il pugno duro della legge è inflessibile: no alle biciclette sulle preziose doghe di legno brasiliano! E gli spacciatori e i balordi? dovrebbe chiedere a quel punto il normale cittadino… Non ci sono, è la tua immaginazione… è l’implicita risposta. Mi correggo: la dittatura è formata da una maggioranza di pedanti, da una macchina burocratica di autorità pedanti, guidate da un leader allucinato. Soluzioni a questa situazione? Nessuna. Le amministrazioni semplicemente non hanno le capacità di risolvere un problema di questa natura. E ogni cosa che fanno, con le migliori intenzioni, peggiora le cose. Servirebbe un piano generale e radicale della viabilità, ma è realistamente possibile pensare che un’amministrazione che emette un’ordinanza sul diritto o meno di calpestare doghe in legno brasiliano sia in grado di pensare ad un piano complessivo della viabilità riminese? E’ solo un sogno di fine estate. E, poveri amministratori, sono da comprendere: non hanno né le capacità intellettuali né le risorse economiche per risolvere problemi simili. Noi intanto stiamo qua, come d’autunno sugli alberi le foglie. Speriamo di tornare vivi a casa la sera, preghiamo per i nostri figli e combattiamo – come soldati, come terroristi – per conquistarci il diritto di poter andare da liberi cittadini su una strada pubblica, senza rischiare la vita.

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