Andrey Melnichenko: «Putin era rimasto senza scelta. Sul Donbass la Russia non tornerà indietro»- Corriere.it

2022-10-03 05:32:05 By : Ms. Maggie King

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Zelensky ai russi: «Lasciate Putin o sarete uccisi uno a uno» - Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

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Intervista all’industriale russo sotto sanzioni riparato a Dubai: sulle annessioni spiega che «l’Occidente non ha ancora capito cosa significhi realmente questo passaggio: sarà impossibile da cambiare. Il caos nell’amministrazione può portare a eventi catastrofici»

Andrey Melnichenko, 50 anni, ha lasciato la Svizzera e ora vive in albergo a Dubai

DAL NOSTRO INVIATO DUBAI — Quando senti parlare Andrey Melnichenko e pensi al suo patrimonio da 19 miliardi di euro (Forbes, 2021) viene in mente la pipa di Magritte. «Io non sono un oligarca», non si è stancato di ripetere il plurimiliardario russo nelle due ore che ho trascorso con lui nella hall dell’albergo di Dubai, che dallo scorso marzo è diventato la sua casa. Vladimir Putin è ancora in pieno controllo della situazione? «La Russia è un Paese enorme. Putin ha il sostegno della maggioranza della popolazione e del più grande partito politico. Quindi sì, da un lato è in controllo: se prende una decisione questa viene eseguita. Ma dall’altro lato, non c’è vera competizione politica e l’esecutivo non deve rispondere alla società. Questo significa che il metro di valutazione per il successo di un amministratore sono la qualità dell’esecuzione delle istruzioni che vengono dall’alto e la dimostrazione di lealtà incondizionata a ogni iniziativa associata al nome del presidente. Ma l’attuale classe amministrativa non è particolarmente capace e nel tempo sono emersi vari centri che si sono arrogati il diritto di agire in nome del Presidente. Putin è un essere umano e non ha il controllo su questo caos, semplicemente non è possibile. Il risultato è che, durante periodi di instabilità, c’è il pericolo che questo tipo di gestione possa produrre eventi catastrofici. Il Presidente non ha l’opportunità di cambiare in modo significante questo modello amministrativo, per il quale ci vorranno decenni di sforzi e un approccio radicalmente diverso».

Dopo le recenti sconfitte subite dall’esercito russo in Ucraina, Putin ha ordinato una mobilitazione parziale e indetto i referendum per l’annessione di quattro regioni del Donbass. Perché secondo lei lo ha fatto? E questo non influenzerà la sua popolarità, come già mostrano le prime manifestazioni di protesta? «Il Presidente lo ha fatto perché non aveva scelta. Gli Stati Uniti non sono disponibili a raggiungere un accordo generale sulla sicurezza in Europa. La sola alternativa, dalla sua prospettiva, era riconoscere la propria debolezza e l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi dell’Operazione Speciale. Nel sistema attuale equivarrebbe a un suicidio politico. La mobilitazione aggiusterà l’equilibrio delle capacità militari. Quanto all’ammissione delle nuove regioni in Russia, è una cosa molto seria. A mio avviso l’Occidente non ha ancora capito cosa significhi realmente. Una volta acquisita, sarà impossibile da cambiare. Né da Putin né dai suoi successori, per i prossimi 30 o 40 anni. Significherebbe avere una maggioranza qualificata nelle due Camere legislative e questo non credo sia possibile. Comunisti, nazionalisti, una significativa parte del Centro rimarranno nel sistema politico russo per alcune generazioni e queste forze non appoggeranno mai una tale decisione, tanto più sotto pressione esterna.

In Occidente c’è l’idea che in Russia tutto è deciso da Putin e che tutti i problemi, in primis quelli di sicurezza, saranno risolti non appena ci sarà un cambio di regime. È un’idea ingenua e pericolosa. E ancora più pericolosa è l’idea che l’isolamento e la pressione economica sulla Russia possano rendere il mondo un posto più sicuro. Quanto alla popolarità del presidente non credo che soffrirà in modo serio. La società russa si adatterà rapidamente alla nuova realtà».

Perché lei rifiuta l’etichetta di oligarca? «Perché sono un uomo d’affari che si è fatto da solo. Ho iniziato quando avevo 18 anni. Nel 1993, a 21 anni, ho fondato la MDM Bank con alcuni amici che studiavano fisica insieme a me all’Università di Mosca. Il capitale iniziale era di 30 mila dollari. Quando l’ho venduta nel 2007, il suo valore era di 4,5 miliardi di dollari ed era la seconda più grande banca commerciale privata della Russia. Le due aziende che ho creato, EuroChem, basata in Svizzera, e la russa SUEK sono state costruite secondo la mia visione e oggi sono entrambe leader globali nei rispettivi settori, fertilizzanti e carbone.

Aristotele nella “Politica” definisce un oligarca come una persona ricca che ha influenza pubblica. In Russia questa figura sociale apparve nel 1995, come esito del trasferimento in mano privata dei più attraenti beni dello Stato. Fu un’operazione politica, il cui obiettivo era di creare un gruppo naturalmente interessato nel proteggere il regime e le favolose proprietà che ne aveva ricevuto. In realtà questi primi oligarchi persero la loro influenza politica durante il primo mandato presidenziale di Vladimir Putin, iniziato nel 2000. Nella prospettiva storica fu la migliore soluzione politica nei veri interessi della Russia.

La percezione prevalente in Occidente è che tutte le decisioni di un Paese enorme di 146 milioni di persone sono prese personalmente dal presidente Putin e dal suo cerchio ristretto e che nessun business di successo sia possibile in Russia senza corruzione o rapporti privilegiati con il potere politico. Non è vero: in Russia è possibile creare un business di successo e io ne sono l’esempio. Una delle chiavi di questo successo non sono le mie connessioni politiche, non ho mai investito risorse per acquisire capitale politico in alcun Paese, non ho mai cercato rapporti speciali con la macchina statale o con i leaders politici, né in Russia né all’Estero. Per questo non godo di benefici speciali dallo Stato russo e non ricevo dividendi politici. Ecco perché non sono un oligarca».

Ma come fece i suoi primi soldi, i famosi 30 mila dollari? «Sono nato nel 1972 a Gomel, la seconda città della Bielorussia, mia madre è ucraina e insegnava letteratura russa in un collegio musicale, mio padre è bielorusso a insegna fisica all’università. Ai miei tempi, nell’URSS, c’erano molte competizioni nelle materie scientifiche a scuola e chi le vinceva veniva mandato in dei licei d’élite specializzati. In cima a questa piramide c’era un centro scientifico presso l’Università Statale di Mosca. Io fui ammesso in uno di questi college e poi alla Facoltà di Fisica. Era il 1989 ed ero proiettato nel futuro. Ma poi tutto cambiò».

L’Unione Sovietica cominciò a implodere . «Sì. Tutti guardano a nuove opportunità. Nessuno seguiva più le regole sovietiche, c’era una incredibile libertà. L’intero campus diventò un centro commerciale. Tutti avevano bisogno di soldi, di preferenza contanti e valuta straniera pregiata, di cui c’era forte domanda. Anche i profitti erano alti. Così aprii nel campus un baracchino di cambiavalute. Nel giro di due anni, ne avevamo molti a Mosca, San Pietroburgo, Novosibirsk, Vladivostok, in tutta la Russia insomma. Ecco come ho fatto i miei primi 30 mila dollari».

Ma lei fondò la sua banca nel 1993, al tempo delle grandi privatizzazioni e delle aste dei voucher. Perché ne è rimasto fuori? «Nel 1995 avevo 23 anni, venivo dalla provincia, non avevo connessioni politiche. La famosa operazione “loans for shares”, il meccanismo dei prestiti per azioni, significò il deposito di fondi statali nelle maggiori banche private, che poi li usarono per acquistare i pezzi più pregiati delle imprese statali a prezzi di svendita. MDM all’epoca era una piccola banca, non era neppure tra le prime cento russe e non aveva accesso a fondi pubblici. Il periodo della crescita venne dopo la crisi finanziaria 1998-99, quando le grandi banche si ritrovarono con una massa di attività non liquide nei loro bilanci e andarono in bancarotta. Politicamente, fu la fine dell’era Eltsin. Io trassi vantaggio da questi cambiamenti, MDM iniziò ad attirare nuovi clienti e crebbe rapidamente. Per la seconda volta avevo colto le opportunità offerte da una crisi del sistema economico russo».

Cosa significò per lei la fine dell’URSS? «Quando arrivai a Mosca nel 1988 avevo 17 anni. Per me fu un periodo interessante: dinamico, fresco, avventuroso. Vivere senza i miei genitori in una grande metropoli era molto eccitante».

Ma era un figlio privilegiato del sistema, che lo aveva mandato a una scuola d’élite. Quando tutto finì, non ebbe il sentimento di perdere qualcosa? «A quell’età non pensi molto. L’URSS aveva un buon sistema educativo: se eri intelligente potevi farcela e finire in qualche istituzione statale, magari viaggiare all’estero. Ma la traiettoria della tua vita era predeterminata, potevi sapere cosa ti sarebbe successo nei prossimi 40 anni. Poi venne lo shock, io ho usato le mie opportunità. E non m ne sono mai pentito».

Come giudica Michail Gorbaciov, che è scomparso da poco? «Ha fatto qualcosa di straordinario: la transizione pacifica dalla Guerra Fredda a una nuova epoca. Trent’anni dopo è facile dire che il passaggio si sarebbe potuto fare con risultati migliori per la Russia, per l’Europa e per l’ordine globale. Ma il sistema non era più stabile e di regola queste transizioni finiscono con una grande guerra. Dobbiamo essere grati a Gorbaciov, per essere stato decisivo nel farlo senza conflitti».

Perché la maggioranza dei russi lo odia? «Per via delle cattive conseguenze economiche che ne derivarono per il popolo russo. E anche perché le attese di un nuovo tipo di rapporti con l’Occidente si sono rivelate illusorie».

All’inizio del Millennio, lei da banchiere diventò industriale, investendo nei tubi metallici, nel carbone e nei fertilizzanti. Perché in questi settori? «Dopo le grandi privatizzazioni degli anni Novanta, che riguardarono le industrie più appetibili, c’erano molte altre piccole aziende che erano state privatizzate, le cui proprietà non erano consolidate ma piuttosto disperse. Nel carbone, per esempio, ogni miniera era stata privatizzata singolarmente, lo stesso nei tubi e nei fertilizzanti. Non c’erano conglomerati. Così mi sono concentrato su questi settori. Fu una scelta strategica, volevamo diventare leader in ognuno di essi. Partivamo da zero e in venti anni ci siamo riusciti, diventando global player. Non abbiamo mai comprato nulla dallo Stato, né gli abbiamo mai venduto niente. Non ho mai avuto incarichi politici e in più dal 2004 non vivo più in Russia».

Perché andò via? «Ho incontrato quella che sarebbe diventata mia moglie nel 2003. Non aveva mai vissuto in Russia, sua madre è croata, suo padre serbo. Ci siamo sposati nel 2005. Nel 2004 abbiamo vissuto per qualche mese in Russia, ma lei non capiva la lingua, non aveva amici, insomma non ci stava bene. Dovevo stare in Russia o costruire una nuova vita altrove con mia moglie? Ho scelto la seconda».

Una domanda specifica: nel 2001, poco dopo la sua elezione a presidente, Putin convocò una famosa riunione di oligarchi al Cremlino, nella quale disse sostanzialmente che avrebbero potuto tenersi le loro proprietà a patto che stessero fuori dalla politica. Lei c’era? «No, non c’ero. Quelli erano coloro che avevano avuto successo negli anni Novanta grazie ai loro accordi con lo Stato russo. Io non ero parte di quel gruppo».

Nel 2004 lei iniziò a ritirarsi dalla gestione delle sue aziende e ha messo tutte le azioni in un trust. Per quale ragione? «Volevo più tempo per me stesso. La mia nuova priorità era di costruire un sistema che si sostenesse da solo, con il giusto equilibrio tra regole e libertà d’impresa, dove la gestione e il controllo potessero procedere senza il mio costante coinvolgimento. È normale governance d’impresa. Il management è responsabile della gestione ma viene controllato dal board dei direttori e sopra c’è la holding proprietaria. La holding è tenuta in un Trust, che ne assicura il funzionamento».

E lei che ruolo si è riservato da allora? «Io sono rimasto nel board dei direttori, in una funzione non-esecutiva. Come ogni altro membro sono coinvolto nelle decisioni più importanti, che sono comunque di gruppo. Tutte le volte che ho dovuto scegliere tra la qualità di una scelta e la reputazione del board, ho scelto la seconda».

Arriviamo alle sanzioni. Secondo l’Unione europea, lei «appartiene al circolo più influente degli imprenditori russi che hanno stretti legami col governo russo». Perché lei contesta questa descrizione? «Perché sanzioni personali contro di me sono ingiuste e inutili rispetto al raggiungimento dei loro obiettivi. Allo stesso tempo causano sofferenze a milioni di persone che nulla hanno a che vedere con la guerra in Ucraina. L’obiettivo delle sanzioni personali contro i cosiddetti russi influenti mira a cambiare i loro comportamenti e a indebolire il loro sostegno al regime politico. Ma io non ho alcun capitale politico per esercitare un’influenza sullo Stato e sicuramente non sono parte del cerchio ristretto del presidente Putin. Alcuni leader dell’Est europeo e gli ucraini invocano il principio della responsabilità collettiva, giustificando la necessità di imporre restrizioni erga omnes, anche a coloro che non hanno nulla a che vedere con quei tragici eventi, sia il divieto dei visti Schengen per i russi, la cancellazione della lingua, dell’atre o della letteratura russe.

Chi sostiene questa politica suggerisce che i russi, offesi, rivolgeranno la loro rabbia contro i loro leader, che con le loro azioni hanno provocato quelle restrizioni. Ma la Storia ci insegna un’altra cosa. Il fenomeno è ben studiato nella letteratura scientifica: un buon esempio è il capitolo Psicologia del Nazismo in “Fuga dalla libertà” di Erich Fromm. La sola cosa che questa politica può portare è un consenso generale in Russia che il conflitto in corso sia veramente una battaglia tra l’Occidente e tutto quello che la Russia rappresenta, una lotta per la sopravvivenza che richiede la compattezza dell’intera società russa intorno a questa idea.

Il secondo obiettivo delle sanzioni è di avere un effetto devastante sull’economia della Russia, per diminuirne la capacità di finanziare azioni militari. È ragionevole assumere che l’obiettivo delle sanzioni personali contro di me fosse di danneggiare le imprese che ho fondato. Ma allora sarebbe stato molto più efficace imporre sanzioni su quei settori dell’economia russa in cui esse operano. Questo obiettivo sarebbe stato più comprensibile, permettendo di evitare di scegliere tra imprese dello stesso settore, quelle che meritano di essere punite e quelle che non lo meritano».

Se non fa parte del suo cerchio ristretto, che rapporti ha lei con Vladimir Putin? «Non lo conosco personalmente. Non l’ho mai incontrato da solo, l’ho visto soltanto insieme a gruppi di imprenditori».

Ma lei era presente all’incontro del 24 febbraio al Cremlino, quando Putin convocò i suoi oligarchi, per chiedere la loro adesione alla guerra. «Il presidente della Russia non ha invitato i “suoi” oligarchi. L’invito venne fatto dall’Unione degli industriali e imprenditori russi, un’istituzione simile alla tedesca BDI o all’American Chamber of Commerce, che difende gli interessi della comunità degli affari russa presso il governo e la rappresenta nel mondo. C’è un dialogo istituzionale continuo: gli industriali sono obbligati ad avere rapporti con le autorità, che il più delle volte frappongono ostacoli, meno spesso vi rendono la vita più facile.

Il settore industriale deve avere la sua agenda e deve essere rappresentato in modo organizzato di fronte allo Stato. Come membro dell’Unione e del suo board, io ho degli incarichi: all’inizio rappresentavo il settore minerario, ora sono il presidente del Comitato di regolamento per il cambiamento climatico e il carbone. Sono molto coinvolto, il tema del clima mi sta a cuore, ma questo non significa che abbia influenza o connessioni strette con il governo. Ero presente all’incontro in questa qualità, era il mio dovere verso gli altri membri dell’Unione degli Industriali. Lavorare con lo Stato significa anche la necessità di ascoltarne i rappresentanti. Come faresti altrimenti ad assolvere i tuoi doveri di interagire».

Torniamo alle sanzioni personali. Sospettava che sarebbe finito nella lista? «No, almeno all’inizio. Pensavo che avrebbero avuto un impatto pesante sull’economia russa. Ero sicuro che gli interessi delle aziende da me fondate sarebbero stati colpiti duramente, ma non immaginavo sanzioni personali contro un privato imprenditore, che per decenni era stato sempre indipendente dallo Stato».

Eppure, proprio prima che le sanzioni venissero varate, sua moglie è diventata la beneficiaria del Trust al suo posto. Perché lo ha fatto? «L’8 marzo, il giorno del mio cinquantesimo compleanno, ho capito che le sanzioni contro di me erano inevitabili. I media in Germania e Regno Unito facevano il mio nome. Quel giorno mi sono dimesso dal board dei direttori e ho notificato ai membri del Trust la mia decisione di ritirarmi da beneficiario. Mia moglie divenne così automaticamente la beneficiaria, così come avevamo pianificato 16 anni prima nell’eventuale caso della mia morte. L’obiettivo era di proteggere le aziende dai miei guai personali e prevenire ogni impatto negativo delle sanzioni personali sui 100 mila dipendenti che abbiamo nel mondo, così come sui mercati dei fertilizzanti e del carbone».

Ma a quel punto, l’Ue ha messo anche sua moglie nella lista dei sanzionati. «Questo proprio non me l’aspettavo. L’Ue non ha alcuna ragione di farlo. Mia moglie non ha mai vissuto in Russia, non ha mai avuto il passaporto russo. Ha la doppia cittadinanza croata e serba. Non ha mai incontrato Putin, neppure in una folla di mille persone. Ha trascorso in Russia sì e no un paio di settimane ogni due anni. In che modo sanzioni contro di lei possono influenzare la politica della Russia verso l’Ucraina? La verità è che la scelta di privare una donna europea dei suoi diritti – il diritto di visitare l’Europa, di educare i suoi figli, cittadini europei, in Europa, il sequestro delle sue proprietà – è stata fatta solo per influenzare il comportamento di suo marito, il mio comportamento. Questo non è mai accaduto in Europa: è la prima volta che l’Ue sanziona una cittadina europea, che non ha la cittadinanza del Paese contro il quale puntano le sanzioni. E se questo non bastasse, l’Ue ha fatto una cosa in più: ha sanzionato una persona solo perché è mia moglie, come se non fosse una donna libera e indipendente ma uno strumento che può essere usato per influenzare il marito».

Perché si è rivolto al Consiglio europeo e alla Corte di Giustizia europea? «Io sono sicuro che le sanzioni contro di me siano ingiuste e immotivate. Non contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi dell’Ue e sono in violazione della legge comunitaria. La Corte europea deve decidere su questo secondo aspetto. Ma il Consiglio europeo ha il potere di analizzare l’impatto delle sanzioni e le loro conseguenze indesiderate. Nel mio caso, questa valutazione è stata condotta in modo superficiale e irresponsabile».

Lei dice che le sanzioni personali contro di lei danneggiano gravemente il suo business. Ma non ci sono sanzioni europee sui fertilizzanti o sul carbone russo. In che modo questo avverrebbe? «In effetti i leader europei, inclusi il premier italiano Mario Draghi, l’Alto Rappresentante della politica estera Joseph Borrell, lo stesso presidente americano e il segretario generale dell’Onu, hanno più volte ripetuto che l’export di fertilizzanti russi non dovrebbe essere limitato da alcuna sanzione. E in verità non ha senso, poiché rappresenta appena lo 0,1% degli introiti fiscali del bilancio russo, svolge cioè un ruolo minuscolo. Allo stesso tempo però i fertilizzanti russi giocano un ruolo cruciale nell’agricoltura mondiale: 37,5 milioni di tonnellate esportate sono pari al 15% dell’export globale e sostengono una produzione agricola che garantisce cibo per 750 milioni di persone. Detto altrimenti, senza un accesso stabile e continuo ai fertilizzanti russi, il mondo non potrebbe mantenere gli attuali livelli della produzione agricola globale.

Il problema è che l’Ue non specifica le restrizioni, tocca a ogni Stato farlo. E succede spesso che le sanzioni vengano applicate in modo paradossale e contrario ai loro stessi interessi nazionali, non solo alle persone sulla lista ma anche alle aziende a loro in qualche modo collegate. Per esempio, il governo della Lituania ha designato Lifosa, il più grande produttore di fosfati in Europa, perché sarebbe legata a me, in quanto sussidiaria di EuroChem, che l’ha acquistata nel 2002 quando era alle soglie della bancarotta. Negli ultimi 20 anni abbiamo fatto grandi investimenti nell’azienda e pagato quasi 500 milioni di tasse al bilancio lituano, producendo ogni anno 1,2 milioni di tonnellate di fertilizzanti, in grado di assicurare la produzione di 13 milioni di tonnellate di cereali annue, che bastano a sfamare 23 milioni di persone. La produzione di Lifosa è cessata in aprile. Prima del 2022, i principali mercati di Lifosa erano l’Ucraina e i Paesi europei. Ora, le spese dei contadini ucraini ed europei sono aumentate in modo esponenziale e i loro governi devono sostenerli. Perché il governo lituano lo ha fatto?

Oppure prendiamo il governo italiano, che ha dato le stesse ragioni per limitare le attività della sussidiaria di EuroChem in Italia. Capisco come queste restrizioni abbiano influenzato il prezzo e la disponibilità di fertilizzanti per i contadini italiani. Ma non capisco come questo possa aiutare a fermare la guerra in Ucraina. Vero, i leader occidentali sono unanimi nel dire che è inaccettabile usare la fame come arma di guerra e che l’esportazione di fertilizzanti russi dev’essere libera. Ma non hanno previsto quanto accade nella realtà e cioè che le sanzioni personali nei miei confronti influenzano il mercato globale, contribuendo alla penuria e agli alti prezzi dei fertilizzanti. E sono sicuro che la situazione sia destinata a peggiorare, questo è solo l’impatto iniziale delle sanzioni sulla crisi alimentare ed energetica».

Qual era lo stato d’animo fra gli imprenditori il 24 febbraio quando Putin vi ha annunciato l’inizio dell’operazione speciale? «Incredulità. Cercavamo di capire la nuova realtà. Ma è stato subito chiaro che era un momento storico, un cambio radicale, stavamo entrando in una nuova epoca».

Lei è stato uno dei pochi imprenditori russi a esprimersi pubblicamente in modo critico verso la guerra. «Credo che ogni conflitto armato sia una tragedia. Sono e sono sempre stato per risolvere le controversie raggiungendo accordi attraverso la diplomazia. La pace deve prevalere, ne abbiamo bisogno urgentemente».

Si aspettava la guerra? «No, non in questo momento. Ma è vero che il sistema globale era squilibrato. Il lavoro di riequilibrio dopo la fine della Guerra Fredda non è mai stato completato e in tali casi, le possibilità di una guerra sono alte».

Si poteva evitarla? «Ogni tragedia si può e si deve evitare. Sfortunatamente non abbiamo ancora imparato a risolvere i nostri problemi in modo pacifico. Probabilmente ci vorrebbe cambiamenti fondamentali, come una profonda ristrutturazione del sistema di Westfalia, basato sulla sovranità degli Stati nazionali, ma non siamo ancora pronti per questo».

Quale fu il suo primo pensiero quando ha appreso la notizia dell’inizio dell’invasione russa? «Che il mondo nel quale avevamo vissuto dopo il crollo del blocco sovietico era finito. Che quello che stavamo vivendo non era solo l’inizio di una guerra civile tra due popoli fratelli, ma un potente movimento tettonico in grado di spaccare il mondo, le cui conseguenze saranno avvertite da miliardi di persone che non hanno nulla a che vedere con questo conflitto. C’era un ordine mondiale, dopo la fine della Guerra Fredda, che ha portato crescita, prosperità e pace per molte persone in tutto il mondo. I protagonisti erano USA, Cina, Russia ed Europa, le loro economie erano interconnesse in un ordine multilaterale basato su regole condivise e globalizzazione. Tutto ciò è finito. Penso però che emergerà un nuovo ordine mondiale che porterà nuove opportunità».

Ma secondo lei, la cosiddetta Operazione Speciale ordinata da Putin era giustificata o no? «Lasciamo la risposta agli storici, nel futuro, quando le emozioni non saranno più così forti. Ci vorrà tempo, sono passati più di 80 anni dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale ma rimane ancora un tema che polarizza le società e catalizza i conflitti odierni, compreso quello in Ucraina. D’altra parte, è veramente importante stabilirlo? Ciò che conta è riguadagnare un nuovo equilibrio globale, in grado di dare altri 35 anni di pace, crescita e prosperità, come quelli che sono seguiti alla fine della Guerra Fredda».

In marzo, le autorità italiane hanno sequestrato il suo famoso veliero nel porto di Trieste. Come ha preso questa decisione dell’Italia, un Paese col quale lei ha molti legami? «La capisco: viviamo in un mondo populista dove ogni decisione che fa sentir bene è giustificata. I politici vogliono mostrare che fanno qualcosa. E naturalmente non ci vuole un cervellone per capire che il sequestro delle proprietà di un ricco russo assicura il 95% del favore popolare. Naturalmente, come molti altri ostaggi che subiscono cose ingiuste, anche io sviluppo una sorta di sindrome di Stoccolma. E comincio a trovare scuse per giustificare le azioni prive di significato delle autorità europee. L’Italia è un Paese che non smetterò mai di amare. I politici vanno e vengono, ma i miracoli di questo Paese – la natura, la storia, l’arte, la cucina – sono la mia gioia. Ho molti amici italiani, adoro il vostro Paese e non vedo acuna ragione per cambiare i miei sentimenti».

Anche quando le tolgono l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia, assegnatale negli anni scorsi, com’è successo in maggio? «Un’altra decisione populista. Varano le sanzioni contro di te, ti imprimono il marchio di cattivo e la macchina burocratica si mette in azione. Posso convivere con questo».

Cosa porterà questa crisi? «Il conflitto russo-ucraino è un piccolo elemento di qualcosa di molto più grande, che sta appena emergendo. Questa crisi ci porterà sicuramente un mondo nuovo. E mi piacerebbe che gli attuali dirigenti politici gestissero questo passaggio con la stessa saggezza della generazione di leader che mise fine alla Guerra Fredda, 35 anni fa».

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