La guerra di Putin all'Ucraina: implicazioni per la partita russa in Medio Oriente e Nord Africa

2022-07-02 12:22:36 By : Ms. Linda Shen

La decisione del presidente russo Vladimir Putin di invadere il territorio ucraino ha conseguenze che si propagano ben oltre il paese ormai sotto assedio. I duri colpi che le sanzioni infieriscono all’economia di Mosca, e una marginalizzazione politica senza precedenti, sembrano fare terra bruciata intorno al Cremlino e impongono alcuni cambi strategici in politica estera. Fra questi, è verosimile aspettarsi un rafforzamento della politica russa in Medio Oriente e Nord Africa, regione in cui, probabilmente non a caso, la Russia di Putin da tempo investe ingenti risorse militari, economiche e diplomatiche.

Un primo ambito dove le conseguenze del tremendo conflitto in corso in Ucraina si faranno maggiormente sentire è quello politico e diplomatico. La decisione di Putin di muovere guerra a un paese sovrano e le violenze brutali perpetrate dall’esercito russo contro la popolazione civile hanno portato a un isolamento della Russia da parte delle potenze occidentali senza precedenti. La risposta dell’Unione europea è stata immediata e, così come con la pandemia, gli Stati membri si sono mossi pressoché all’unisono, organizzando una risposta comune e condannando fermamente la guerra. Bruxelles, che già a inizio anno (13 gennaio 2022) aveva deciso di prolungare le sanzioni vigenti di altri 6 mesi, fino dunque al luglio 2022, in seguito all’invasione ha potenziato le misure restrittive. Il 23 febbraio il Consiglio europeo ha decretato un primo pacchetto di sanzioni in risposta al riconoscimento russo delle due repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, seguito da un secondo pacchetto appena due giorni dopo (25 febbraio) a fronte dell’effettiva invasione delle truppe russe; a questi si sono poi susseguiti un terzo (28 febbraio), quarto (15 marzo) e quinto (8 aprile) pacchetto di sanzioni, pensati per colpire i settori finanziari, dell’energia e le politiche in materia di visti, nonché singoli individui della Federazione Russa ma anche della Bielorussia, sua alleata e stretta complice nella guerra contro l’Ucraina[1]. La UE si è poi compattata – anche se con qualche incertezza da parte di alcuni paesi – per sostenere militarmente l’Ucraina: un pacchetto di 500 milioni di euro è stato stanziato per l’invio di attrezzature alle forze armate a sostegno della resistenza, cui hanno fatto seguito altre iniziative unilaterali. Anche paesi storicamente ancorati a una sostanziale neutralità in politica internazionale, come la Finlandia o la Svezia, si sono uniti al fronte comune, fino anzi a chiedere di essere ammessi nella Nato; una richiesta che il segretario Jens Stoltenberg ha “caldamente accolto”, come da sue parole, quando il 18 maggio Helsinki e Stoccolma hanno presentato domanda ufficiale. Dal canto loro, gli Stati Uniti si sono comportati in maniera simile: il presidente Biden ha condannato con forza l’invasione russa – anche usando espressioni colorite nei confronti dell’omologo russo che ha definito, ad esempio, “macellaio”[2] – e ha predisposto immediate misure in campo sanzionatorio e di assistenza militare.

Se la Russia fin da subito è sembrata non curarsi della reazione internazionale all’invasione, lo stesso non si può dire dei governi del Medio Oriente e Nord Africa che, anzi, si sono trovati nell’imbarazzo di dover scegliere se unirsi al coro dei paesi occidentali e potenzialmente compromettere le relazioni con Mosca, o se chiudere un occhio con Mosca e rischiare di scontentare i paesi occidentali. Europa e Stati Uniti sono partner storici e fondamentali per i paesi della regione. L’Europa lo è per ragioni geografiche e di sicurezza, ma anche economiche e commerciali. L’eurozona rappresenta infatti il maggior partner commerciale per molti paesi dell’area, soprattutto per il Maghreb: statistiche effettuate prima della pandemia rilevano che l’export verso i paesi europei (materie prime, beni e prodotti alimentari) costituivano il 26% del Pil della Tunisia, e il 16% di quello del Marocco[3]. Attraverso la Politica Europea di Vicinato, poi, i paesi del Medio Oriente e Nord Africa sono stati importanti destinatari di aiuti umanitari (primi fra tutti i Territori palestinesi e la Siria). Anche gli Stati Uniti sono un partner imprescindibile: sebbene negli ultimi anni abbia ricalibrato la propria politica mediorientale verso un impegno minore, evidente già dalla presidenza di Barack Obama (la cui decisione più significativa in questo senso fu quella di non intervenire nel conflitto siriano), Washington è stata garante della sicurezza per decenni e continua a essere presente. A questo si aggiunge poi la Nato (di cui è parte la Turchia, uno fra i paesi “driver” nella configurazione degli equilibri regionali): sebbene l’alleanza si componga di paesi con agende politiche spesso divergenti che impediscono il raggiungimento di progetti ambiziosi nella regione, le relazioni militari con le forze armate locali sono state significative e durevoli, e hanno sicuramente caratterizzato la storia del Medio Oriente e Nord Africa negli ultimi decenni[4]. 

Allo stesso tempo, però, nell’ultimo ventennio, la maggior parte dei paesi della regione ha notevolmente espanso le relazioni diplomatiche, economiche, militari e commerciali con Mosca. Già “il primo Putin” aveva chiarito l’obiettivo di far riemergere la Russia post-sovietica dall’isolamento internazionale degli anni Novanta, cominciando proprio da un rilancio delle relazioni con il Medio Oriente, che per Mosca costituisce il vicinato meridionale. Sviluppi importanti come l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, l’invasione dell’Iraq nel 2003 e, più avanti, a partire dal 2011, l’onda lunga delle cosiddette “Primavera arabe”, hanno rinnovato la convinzione nell’establishment russo dell’importanza di questa regione[5]. Questi e altri avvenimenti rappresentavano per Mosca focolai di instabilità che potevano avere un impatto negativo sulla sicurezza interna, soprattutto sulla fragile situazione nel Caucaso (si pensi in particolare alla Seconda Guerra cecena, 1999-2009). Con il nuovo millennio, da una parte, Mosca ha gradualmente lavorato al riavvicinamento con tutti i paesi dell’area; dall’altra, in parte come risposta naturale all’interesse russo, e in parte per adattarsi alla realtà di un mondo sempre più multipolare, tutti i governi della regione si sono considerevolmente avvicinati alla Russia di Putin.

In questo contesto, di fronte all’invasione del 24 febbraio, molti di questi si sono trovati, almeno inizialmente, nella difficoltà di dover decidere da che parte schierarsi per paura di compromettere le relazioni con uno o l’altro partner (“mondo occidentale” e Russia). A questo binomio si aggiunge anche la triangolazione con la Cina, un partner commerciale fondamentale per i paesi Mena, la cui posizione nei confronti della guerra di Putin rimane ambigua. Nella prospettiva di un conflitto globale, qualora Pechino dovesse schierarsi a favore di Mosca, sarebbe ancora più difficile per i governi mediorientali condannare apertamente le azioni russe. In molti si sono dunque trovati in quella che alcuni ricercatori hanno efficacemente definito “la difficoltà di (non) schierarsi”, “the struggle to (not) pick sides”[6], rimandando proprio al dilemma di condannare o non condannare la Russia. Un primo sentore di questo dilemma si era avuto già il 26 febbraio, ad appena due giorni dall’invasione, quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva votato per convocare una sessione speciale dell’Assemblea Generale. In quell’occasione, gli Emirati Arabi Uniti (Eau) si erano astenuti dal voto[7]. Sebbene il gesto emiratino non possa essere considerato come rappresentativo di una più ampia “visione araba” sulla guerra, ha tuttavia destato preoccupazioni fra i paesi occidentali, anche in considerazione del fatto che da marzo 2022, gli Emirati avrebbero assunto la presidenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Oltre alla questione emiratina, gli altri paesi sono stati lenti nel formulare risposte chiare.

Ha contribuito a fare chiarezza il voto tenutosi il 2 marzo (2022), sempre presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per la risoluzione che chiedeva che la Russia “ritirasse immediatamente, completamente e incondizionatamente la totalità delle sue truppe dal territorio ucraino”. All’Assemblea Generale, che ospita 193 stati, 141 hanno votato in favore della risoluzione, a condanna della guerra di Putin[8] e riaffermando dunque il diritto dell’Ucraina a sovranità, indipendenza e integrità territoriale. Fra questi, Israele, Turchia e la maggior parte degli stati arabi. Algeria, Iraq, Iran e Sudan, invece, si sono astenuti. Le ragioni per questa scelta potrebbero essere molteplici, ma sono sempre riconducibili a una necessità, da parte di questi governi, di non compromettere le relazioni bilaterali con il Cremlino.

Oltre a una relazione storica e molto buona ai tempi dell’Unione Sovietica, Algeri ha oggi un rapporto stretto con Mosca, basato principalmente su cooperazione militare (Mosca si è accaparrata importanti accordi per la vendita di armi all’Algeria) ed energetica (Gazprom e Sonatrach, le rispettive società leader nel settore, hanno firmato un Memorandum nel 2006). Anzi, è stata proprio l’Algeria uno dei paesi su cui Putin ha puntato, a partire dal 2000, per rilanciare la politica nordafricana; una strategia che è passata anche per la liquidazione del debito algerino accumulato in era sovietica, stimato a 4,7 miliardi di dollari. Allo stesso modo l’Iraq, che ha provato goffamente a giustificare la propria astensione alludendo al rischio che i terroristi locali potessero trarre vantaggio da eventuali tensioni internazionali, non sembra avere nessuna intenzione di inimicarsi Mosca, con cui ha avviato una sostenuta cooperazione economica negli ultimi anni, anche qui principalmente in campo militare ed energetico. Non solo, le pesanti sanzioni occidentali alla Russia complicano proprio gli investimenti energetici russi in Iraq e le forniture di armi, e questo potrebbe avere un effetto importante sia sull’economia irachena, sia sul complesso percorso di riforme del settore della sicurezza[9]. È per paura di ritorsioni sul dossier nucleare, invece, che si è astenuto l’Iran. Nell’ultimo anno, infatti, è stata Mosca a mediare fra Teheran e Washington e guidare le negoziazioni per la ripresa dell’accordo Jcpoa; dopo l’invasione dell’Ucraina e in seguito alla durissima reazione internazionale, Mosca ha ricalibrato il proprio ruolo da intermediario, implicitamente minacciando di mettere in pericolo l’accordo stesso[10]. Per questo motivo Teheran ha preferito astenersi dal voto del 2 marzo, notando anzi che le complessità nella fragile regione dell’est Europa “sono state esacerbate da azioni provocatorie di Stati Uniti e Nato”, e che le preoccupazioni di Putin in materia di sicurezza devono essere rispettate. Infine, non deve stupire nemmeno l’astensione del Sudan. Paese cruciale per l’espansione di Mosca nel Corno d’Africa e nella Repubblica Centroafricana (Car), il Sudan rappresenta da qualche anno un obiettivo strategico di primaria importanza per Mosca, tanto che si sta discutendo l’apertura di una base navale russa. Non a caso, Mosca si è impegnata gradualmente, almeno dal 2017-18, a stabilire una significativa presenza militare nel paese, tramite contractor e mercenari del gruppo Wagner, con l’obiettivo, o la scusa, di addestrare le forze di sicurezza sudanesi contro i sommovimenti popolari antigovernativi. I contractor russi starebbero addestrando non solo le forze armate e di polizia ma anche i servizi di intelligence e di sicurezza nazionali.

Oltre a questi paesi, anche altri governi del Medio Oriente e Nord Africa si sono trovati in difficoltà. Ad esempio, il governo egiziano, negli ultimi anni, ha dato nuovo slancio alla relazione storica con la Russia: oltre a un aumento di legami economici e commerciali, l’Egitto ha di fatto sposato la politica mediorientale di Putin, dando un “tacito endorsement” tanto all’intervento in Siria quanto alle operazioni di Wagner in Libia[11]. Fra il 2009 e il 2018, poi, Mosca è stata la principale fornitrice di armi ai governi del Cairo, che si sono così classificati fra i maggiori importatori mediorientali di armi russe[12]. Oltre alla compravendita di armi, sono state riesumate anche le vecchie pratiche di cooperazione militare tipiche delle relazioni egiziano-sovietiche: i due partner hanno tenuto diverse esercitazioni militari congiunte; dal 2017 ai russi è stato concesso di usare basi militari egiziane a loro piacimento, anche come appoggio per le operazioni in Siria; nel 2018 i russi sono riusciti a portare a casa un accordo per la creazione di quella che sarebbe la prima base nucleare egiziana, nella città di El Dabaa. Sebbene il Cairo abbia scelto, formalmente, di condannare l’aggressione russa e preservare dunque le relazioni con l’Occidente, immediatamente dopo il voto all’Assemblea Generale ha invitato a considerare le preoccupazioni di Putin. Il voto del 2 marzo ha testimoniato poi – e questo stupisce ancor meno – la netta convergenza fra la Siria di Assad e la Russia di Putin. Assieme a Bielorussia, Corea del Nord ed Eritrea, quello di Damasco è stato fra i pochissimi governi al mondo (cinque in tutto, contando il Cremlino stesso) a votare contro la risoluzione Onu.

Si potrebbe dunque dire che la guerra in corso in Ucraina è stata in qualche modo rivelatrice di una dinamica in corso già da tempo. Una dinamica che non è affatto sottotraccia, ma che probabilmente è stata spesso sottovalutata, e ancora viene sottovalutata per gli effetti che può avere sull’ordine liberale internazionale: e cioè la vicinanza dei paesi mediorientali alla Russia di Putin. Se legami economici e commerciali non costituiscono certo una minaccia agli interessi europei, lo stesso non si può dire delle sostenute collaborazioni politiche e in materia di sicurezza. In particolare, quello che Mosca porta avanti nei paesi della regione è un vero e proprio modello di “conflict management” alternativo, che si identifica con un supporto, in vari teatri di crisi, spiccatamente militare e che spesso, anziché favorire trattative politiche, le ostacola, minacciando non solo il raggiungimento di una stabilità in questi contesti, ma anche gli interessi occidentali e prima di tutto europei, trattandosi del nostro vicinato.

A preoccupare sono anche le implicazioni economiche che la guerra di Putin in Ucraina potrebbe avere sulla regione Mena, e che si giocano su molteplici livelli: sicurezza alimentare, prezzi del petrolio, mercato del lavoro. Sebbene in nessuno di questi ambiti si siano ancora registrati grossi shock, qualora il conflitto dovesse protrarsi nel tempo, gli impatti per la regione potrebbero essere significativi.

Quello della “food security”, la sicurezza alimentare, è un tema caldo per i paesi dell’area da tempo. Secondo stime della Fao (Food and Agriculture Organization), già prima della pandemia da Covid-19, 55 milioni di persone su una popolazione stimata di circa 456 milioni erano a rischio di insufficienza alimentare; le stime sono poi drammatiche in Siria e Yemen – entrambi afflitti da perduranti conflitti – dove il numero di persone a rischio raggiunge rispettivamente 12 e 24 milioni (nel caso dello Yemen, questa cifra rappresenta l’83% della popolazione)[13]. Su questo quadro grava ora il peso delle forniture alimentari che arrivano proprio da Ucraina e Russia, fra i maggiori produttori di grano a livello mondiale e primi esportatori nei paesi della regione. Fatti i dovuti distinguo, poiché non tutti i paesi del Medio Oriente e Nord Africa sono ugualmente dipendenti dal grano ucraino o russo (l’Algeria, ad esempio, ne importa solo il 3%), basterebbe pensare a questi dati per rendersi conto dei rischi che alcuni di questi potrebbero correre: fra il 2019 e il 2021 l’Egitto ha importato l’85% del grano da Ucraina e Russia; Israele fra il 60% e il 70%; il Marocco circa il 35%; la Somalia addirittura il 100%; il Sudan il 75%; Tunisia, Libano ed Emirati Arabi Uniti circa la metà dell’approvvigionamento complessivo; e la Turchia circa il 78%. 

Inoltre, si moltiplicano i rischi del rincaro dei prezzi, in particolare il prezzo del pane, rischia naturalmente di scavare nel solco di economie già al collasso se non fallite (si pensi al caso del Libano, ma anche a paesi come Egitto, Marocco e Tunisia) e di aggravare le già esistenti crisi umanitarie, prime fra tutte la Siria e lo Yemen, paesi che sono già pericolosamente vicini alla carestia e dunque maggiormente esposti al rischio di ulteriori problemi nell’approvvigionamento alimentare. Gli effetti di un aggravamento generale delle condizioni economiche sono incalcolabili, ma fra queste bisogna senz’altro considerare il rischio di nuove sommosse popolari, oltre che gli effetti su flussi migratori, terrorismo e traffici illeciti. [14] Potrebbero aumentare anche le difficoltà nella “supply chain” globale, che stava cominciando a ripartire dopo due anni difficili a causa della pandemia di Covid-19: molte aziende, ucraine russe ed europee, potrebbero dover ripensare la catena produttiva, in particolare quella che si collega al continente asiatico e africano.

Soprattutto, la guerra di Putin rischia di avere grosse implicazioni in materia di energia. Queste riguardano principalmente l’Europa: il vecchio continente, infatti, è il principale destinatario degli export di gas che arriva dalla Russia, anche attraverso l’Ucraina. Complessivamente, il mix energetico di cui si sostentano i paesi della UE conta per il 30% sul gas russo; una dipendenza che quasi tutti paesi europei sono determinati a ridurre drasticamente. A dire il vero, quella sulla diversificazione degli approvvigionamenti energetici (gas ma anche petrolio) è una questione presente nei paesi dell’UE già da tempo. In particolare, nel corso degli ultimi anni, Bruxelles ha cercato attivamente di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento, puntando ad esempio ad acquisire maggior gas naturale liquefatto (Gnl) dagli Stati Uniti, o accelerando nella strada delle rinnovabili. Sebbene molti analisti avessero già sottolineato la necessità di diversificare proprio per ridurre la dipendenza dal fornitore russo, in questi anni ha probabilmente prevalso la facilità tecnica degli approvvigionamenti dal paese geograficamente attiguo all’Unione: il gas russo arriva in Europa via terra senza bisogno di trasporti complessi. Ora, e pur nella consapevolezza che non è possibile trovare un’alternativa immediata, la maggior parte dei paesi europei si trova costretta a cercare altri interlocutori che possano almeno in parte sostituire Mosca. Per ragioni geografiche, i paesi del Nord Africa ma anche quelli del Medio Oriente rappresentano l’alternativa più immediata. Si è visto infatti come molti governi europei si siano mossi repentinamente per aprire nuovi “dialoghi energetici” nella regione. L’Italia, ad esempio, fra i paesi maggiormente dipendenti dal gas russo che rappresenta il 42,5% delle nostre forniture totali, si è rivolta all’Algeria, durante la visita del primo ministro Mario Draghi (12 aprile 2022) Eni e Sonatrach, i rispettivi colossi dell’energia, hanno firmato un accordo per aumentare la fornitura di gas algerino all’Italia fino a 9 miliardi di metri cubi all’anno (Roma ne importa da Mosca circa 30 miliardi all’anno); il trasporto avverrà attraverso Transmed, il gasdotto che collega l’Algeria all’Italia passando per la Tunisia. Per quanto riguarda il gas, il Qatar potrebbe forse giocare un ruolo importante. Non a caso, a fine gennaio, in un incontro alla Casa Bianca, il presidente Biden avrebbe chiesto all’Emiro di Doha di sostenere la sicurezza energetica europea; tuttavia, il paese arabo non gode di risorse infinite, e anzi sarebbe arrivato quasi al limite della propria capacità di export.[15]

Inoltre, di fronte alla crisi energetica, il primo di marzo (2022) l’Opec Plus (ossia i paesi membri della Organization of the Petroleum Exporting Countries, più la Russia) ha deciso di non aumentare significativamente la produzione petrolifera per calmierare i prezzi. Da una parte, i paesi Opec, soprattutto l’Arabia Saudita, potrebbero non aver voluto favorire indirettamente gli Stati Uniti, che proprio a Riyadh avevano chiesto, già prima che la Russia invadesse l’Ucraina, di aumentare la produzione di greggio. Dall’altra, più semplicemente, se è vero che la guerra di Putin ha riportato l’attenzione sulla più ampia regione Mena come importante fonte di energia per l’Europa, è anche vero che è difficile pensare che i paesi della regione si convertano a maggiore produzione solo per accontentare i desideri europei.

Infine, in materia di energia, vi è poi un’altra questione sulla quale questa crisi potrebbe gettare un’ombra: ed è la questione delle energie rinnovabili. Da una parte, sulla strada di una sempre maggiore riduzione della capacità di export dell’energia russa, il potenziale attrattivo delle rinnovabili a livello globale cresce. Si è discusso molto, in Europa, di come le energie rinnovabili rappresentino la strada più sicura per la sicurezza energetica del futuro: energia eolica, solare e idroelettrica, risorse di cui i paesi del Medio Oriente e Nord Africa sono ricchi. Non a caso, molti governi della regione negli ultimi anni hanno investito in questa direzione, anche perché le rinnovabili costituirebbero una fonte di approvvigionamento più sostenibile, soprattutto per quei paesi le cui risorse sono destinate – seppure nel lungo periodo – a esaurirsi. Dall’altra parte, però, proprio la corsa europea ad approvvigionamenti non russi potrebbe rallentare la ricerca di energie rinnovabili, rischiando di vanificare gli sforzi fatti.

La guerra in atto avrà probabilmente tempi lunghi, come di lungo corso saranno le conseguenze regionali, in Europa orientale e globali. Non solo la speranza di un rilancio delle negoziazioni fra Mosca e Kiev è debole, ma anzi si continua a temere una pericolosa “escalation”. Se è difficile dire quali sviluppi ci saranno e quando questo conflitto finirà, si può però provare a fare alcune previsioni su come cambierà, o potrebbe cambiare, la partita russa in Medio Oriente e Nord Africa.

Innanzitutto, dal punto di vista politico, è verosimile pensare che Mosca non solo presterà grande attenzione a mantenere buone relazioni con i governi della regione ma, laddove possibile, cercherà di rafforzarle. Un caso che salta all’occhio è sicuramente quello dell’asse Mosca-paesi del Golfo. Gli Eau, ma anche l’Arabia Saudita, sempre più frustrati per il crescente disimpegno di Washington, storica alleata che vedono ora come in larga misura inaffidabile, non hanno esitato a mostrarsi insoddisfatti della gestione americana di questa guerra.[16] In particolare, Abu Dhabi (oltre ad astenersi dal voto contro la Russia all’Assemblea Generale del 26 febbraio) ha tenuto a sottolineare che continuerà a investire nella propria partnership strategica con Mosca; non a caso probabilmente, molte famiglie di oligarchi russi per raggirare le sanzioni si stanno trasferendo proprio nell’Emirato, che rischia di guadagnarsi la fama di “paradiso sicuro per i complici di Putin”. Inoltre, Mosca sta consolidando anche i rapporti con l’Egitto e la Lega araba. A inizio aprile, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry e il segretario generale della Lega araba Aboul Gheit sono stati accolti a Mosca dal ministro Lavrov. Se il motivo ufficiale della visita era quello di proporre una – improbabile – mediazione egiziano-araba del conflitto russo-ucraino, sembra più plausibile che si sia trattato di un semplice vertice diplomatico con cui Mosca (soprattutto, ma anche gli arabi) ha voluto mandare un messaggio. Mentre i leader europei si recano a Kiev e, secondo la prospettiva di Mosca, soffiano sul fuoco di un conflitto che in realtà non intendono risolvere ma semmai cavalcare, in funzione anti-Putin, altri leader si recano a Mosca, ascoltano le ragioni del Cremlino e si offrono ad agire da pacieri. Altro indizio della determinazione di non compromettere i rapporti con i principali attori mediorientali è stato poi un gesto, decisamente inedito, del presidente Putin: il capo del Cremlino ha contattato personalmente il primo ministro israeliano Naftali Bennett scusandosi per le parole sconsiderate usate dal suo ministro Lavrov, che aveva definito gli ebrei antisemiti nel corso di un’intervista rilasciata a una televisione italiana.

Vi è poi da aspettarsi che la Russia di Putin consoliderà sempre più il legame con la Siria di Assad, fiore all’occhiello della politica mediorientale del Cremlino. Se si pensa a quanto Putin abbia investito in questo paese e nell’alleanza strategica proprio con la famiglia Assad – un’alleanza che nasce negli anni Settanta con la salita al potere di Hafiz al-Assad, padre dell’attuale presidente, e che dura pressoché intatta fino ai giorni nostri – appare chiaro che non mollerà la presa. Tralasciando i legami storici, che pure aiutano a capire la solidità di questa partnership, è evidente come negli ultimi anni questa sia stata vitale per entrambi. Per il regime di Damasco, che senza il supporto militare e politico della Russia non sarebbe sopravvissuto al peso della ribellione armata; e per il regime di Mosca, che nella Siria ha trovato una porta di (ri)accesso agli affari mediorientali. Anzi, molti analisti hanno sottolineato che “la strada della Russia verso l’Ucraina è cominciata (proprio) a Damasco”.[17] È difficile stabilire se Mosca avesse già in mente una conquista dell’Ucraina orientale quando lanciò la campagna militare in Siria, e se lo sviluppo di queste due campagne fosse in qualche modo collegato; quello che è certo, è che la Siria sia stata una sorta di laboratorio per i russi. Un laboratorio militare, innanzitutto: le tattiche in uso in Ucraina non sono affatto nuove. L’assedio di importanti centri urbani, alcuni dei quali letteralmente rasi al suolo; i bombardamenti mirati a infrastrutture civili come scuole e ospedali; i bombardamenti lungo le arterie stradali per impedire il transito dei profughi in fuga; l’instancabile macchina della disinformazione e della propaganda diffuse attraverso media russi e media locali; queste e altre azioni fanno parte di una strategia militare che la Russia persegue nel paese arabo dal 2015, sempre – è bene ricordarlo – con la benedizione del governo di Damasco. Appare dunque evidente che questo legame potrà solo rafforzarsi: Putin e Assad contano l’uno sull’altro, in una convergenza di visioni politiche e valoriali che il Cremlino sperimenta con pochi altri governi al mondo. E infatti, come nel 2015 fu Assad a chiedere l’aiuto russo, oggi è Putin a chiedere supporto alla Siria. Un supporto di poco conto, forse, ma pur sempre degno di nota, visto che la Siria è ampiamente marginalizzata a livello internazionale ed è uno stato al collasso a livello interno, il massimo che Damasco può fare per i russi è inviare combattenti. Tanto più che la marginalizzazione siriana potrebbe andare affievolendosi nei prossimi mesi e anni, e il paese potrebbe tornare a contare a livello regionale. Si è assistito a timidi passi in questo senso con la visita di Assad negli Eau e il crescente discorso sulla “normalizzazione” con Damasco[18], che allude, appunto, al reintegro del regime siriano nel sistema politico regionale e nella Lega araba. Accanto alle ragioni politiche che terranno i russi strettamente ancorati alla Siria, vi è poi una questione prettamente militare e strategica: la base militare di Tartus, costruita nel 1971, cui poi è stata aggiunta quella aerea di Hmeimim e, a oggi, unica base navale russa fuori dai confini della Federazione. Questo polo diventerà sempre più importante dal punto di vista strategico, nella prospettiva di un sempre maggiore isolamento internazionale nei confronti della Russia, in parte già dimostrato dalla decisione turca di inizio marzo di ridurre l’accesso agli stretti del Bosforo e dei Dardanelli alle navi russe.[19]

Infine, è legittimo pensare che la politica russa in Medio Oriente e Nord Africa sarà sempre più improntata su una competizione con i paesi occidentali e con la Nato. Benché questa guerra sia essenzialmente una guerra regionale, ossia un conflitto irrisolto e longevo in cui russi e ucraini sono i principali protagonisti, è apparso chiaro fin dall’inizio dell’invasione che la partita fosse ben più ampia. Quella che Mosca chiama “operazione speciale” non è solo una campagna con cui il Cremlino rivendica gli Accordi di Minsk, la situazione precaria delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, o ancora il “mito” dell’Ucraina nazista. È (anche) un vero e proprio atto dimostrativo, con cui Mosca contesta il più ampio assetto delle relazioni internazionali, quell’ordine globale che si è instaurato con il crollo dell’Unione Sovietica e che ha visto la neonata Federazione Russa largamente marginalizzata dagli affari mondiali (almeno per tutti gli anni Novanta); mentre, dall’altro lato, gli Stati Uniti, rivale di mezzo secolo nella cosiddetta Guerra fredda, emergevano come potenza incontrastata e incontestata. È solo una questione di equilibri di potere? Niente affatto. È una questione più ampia, politica e soprattutto “valoriale”. Mentre Stati Uniti e alleati transatlantici emergevano come portatori di valori liberali e democratici, non solo nella politica ma anche nella società, nel modo di concepire il dissenso politico, la libertà di stampa e di espressione, il rapporto stato-chiesa, nel modo di concepire la famiglia, le “cosiddette libertà sessuali” (come le ha definite lo stesso Putin in un video del marzo 2022); mentre questa “globalizzazione dei valori” prendeva piede, l’establishment russo con questi valori faticava a ritrovarsi. Se per molti anni questo non ha rappresentato un grande problema per Putin, che sembrava disposto ad “andare dritto per la sua strada”, governando la Federazione e gestendo le crisi del vicinato come meglio credeva senza però interrompere il dialogo con l’Occidente e, anzi, in molti casi cercandolo, tutto questo ultimamente è cambiato. Nell’ottica di Mosca, prima il supporto occidentale alle trasformazioni democratiche in corso in Ucraina sulla scia dell’Euromaidan e poi la discussione sull’ingresso dell’Ucraina nella Nato, a dire il vero solo paventata e mai davvero discussa, sono state inaccettabili. Sempre nell’ottica di Mosca, in primo luogo, l’interesse occidentale per la questione ucraina è quasi un’interferenza negli affari interni russi: il destino del Donbass era da gestire esclusivamente fra ucraini e russi, eventualmente nella cornice di una negoziazione Onu, che è stata vagamente ipotizzata negli anni scorsi ma di cui poi non si è fatto più nulla. In secondo luogo, l’interesse occidentale è visto come una sfida pericolosa proprio a quei valori politici e sociali a cui la Russia di Putin non vuole rinunciare, e che ancora vivono, in grandissima parte, nei paesi dell’ex blocco sovietico. Purtroppo, questo ci dice che la partita in gioco è ampia, che non si circoscrive al Donbass e non si giocherà solo in questa regione.

Come nella Guerra fredda, i paesi del Medio Oriente e Nord Africa rischiano non solo di divenire teatri di competizione fra questi due modelli – lo sono già, in parte, si pensi alla presenza russa in paesi come Siria e Libia e alle sfide che questa pone agli sforzi militari e diplomatici europei o statunitensi – ma teatri dove Mosca potrebbe alzare il livello di questa competizione, usando la propria considerevole presenza militare. Fra questi, il Sahel già da tempo ha acquisito – e continuerà a farlo – un’importanza strategica per Mosca, in quanto fascia di collegamento fra il Nord Africa, il Corno d’Africa e il Golfo di Aden, e l’Africa Centrale, regioni ricchissime di risorse naturali e vere e proprie polveriere di instabilità politica, dove la Russia trova dunque ricchissime opportunità militari ed economiche. I due paesi dove Mosca sembra scommettere più in alto sono il Mali e il Sudan. In Mali, complici il fallimento della missione Onu e il ritiro delle truppe francesi, i mercenari di Wagner combattono a fianco delle forze governative per sopire la ribellione armata di stampo jihadista; associazioni umanitarie però, incluso l’autorevole Human Rights Watch, sottolineano che questi mercenari giocano un ruolo pericoloso. Non potendoci essere una risposta esclusivamente militare a lotte di carattere fondamentalmente sociale ed etnico, gruppi come Wagner rischiano solo di complicare il quadro e aumentare il livello di violenza.[20] Il gruppo russo è presente anche in Sudan, dove peraltro sembrano avanzare gli accordi fra Mosca e il governo di Khartoum per l’apertura di una base navale russa a Port Sudan, sulla costa sudanese del Mar Rosso, uno degli stretti più importanti per i traffici commerciali (di qualsiasi sorta) mondiali.

In ogni caso, qualsiasi sarà la portata delle azioni militari e diplomatiche russe nella regione, quello che appare evidente è che calerà un’ulteriore ombra sulle prospettive di cooperazione fra russi e attori occidentali. Diminuirà sicuramente anche la disponibilità dei russi a cooperare con le agenzie dell’Onu, presenti in molti paesi dell’area con missioni speciali; in Mali, ad esempio, Mosca e Bamako si sono opposte alla proposta di un’indagine dei caschi blu sulla strage che ha visto 300 civili uccisi in una “operazione speciale” – termine ricorrente – contro gruppi terroristi, denunciata dalle Ong locali. In particolare, la Ong Acled (“Armed Conflict Location and Event Data Project) ha in seguito fornito prove del coinvolgimento dei mercenari di Wagner nei massacri.[21]

Dall’Ucraina all’Africa, dunque, preoccupa il coinvolgimento russo in conflitti complessi, dove la soluzione deve essere innanzitutto politica e diplomatica. Preoccupa, ma deve fare riflettere, e riflettere in modo strategico. Seppure compromesso e stanco, non deve venire meno il dialogo diplomatico dell’Occidente con il Cremlino sulle crisi di questi paesi; un dialogo che è sì difficile, ma necessario.

[1] Cronistoria, Misure restrittive dell’Ue nei confronti della Russia in relazione all’Ucraina.

[2] K. Blaine, “Biden calls Putin ‘a butcher’ after meeting with refugees in Poland”, CNN, 26 marzo 2022.

[3] G. Giovannetti e E. Marvasi, “Trade Networks in the MENA Region”, IEMed Mediterranean Yearbook 2019, IEMed Institute, 2019.

[4] J.-L. Samaan, The Limitations of a NATO-Middle East Military Cooperation, Sada, Carnegie Endowment for International Peace, 7 maggio 2020.

[5] E. Tafuro Ambrosetti, Y. Cherif e C. Lovotti, “Setting the Stage for Analyzing Russia’s MENA “Return”: A Historical Background”, in C. Lovotti, E. Tafuro Ambrosetti, C. Hartwell e Al. Chmielewska (a cura di), Russia in the Middle East and North Africa: Continuity and Change, London, Routledge, 2020.

[6] T. Borck e J. Senogles, Russia’s War on Ukraine: Implications for the Middle East and North Africa, Royal United Services Institute (RUSI), Commentary, 10 marzo 2022.

[7] United Nations, “Security Council vote sets up emergency UN General Assembly session on Ukraine crisis”, UN News Global perspective Human stories, 27 febbraio 2022.

[8] United Nations, “General Assembly resolution demands end to Russian offensive in Ukraine”, UN News Global perspective Human stories, 2 marzo 2022.

[9] Sa. Ramani, What does Russia’s war in Ukraine mean for Iraq?, Middle East Institute, 4 aprile 2022.

[10] A. Hamzauy et al., What the Russian War in Ukraine Means for the Middle East, Carnegie Endowment for International Peace, 24 marzo 2022.

[12] A. Kuimova, Russia’s Arms Exports to the MENA Region: Trends and Drivers, EuroMeSCo Policy Brief, IEMed Institute, 1 aprile 2019.

[13] F. Belhaj e A. Soliman, MENA Has a Food Security Problem, But There Are Ways to Address It, World Bank, 25 settembre 2021,

[14] J. Barnes-Dacey e H. Lovatt, Principled pragmatism: Europe’s place in a multipolar Middle East, European Council on Foreign Relations (ECFR), Policy Brief, 28 aprile 2022.

[15] E. Ardemagni, Il Golfo nella crisi Russia-Ucraina: reazioni, interessi, scenari, ISPI Commentary, ISPI, 3 marzo 2022.

[16] The Impact of Russia’s Invasion of Ukraine in the Middle East and North Africa, International Crisis Group, 14 aprile 2022.

[17] W. Christou, “For Syrians, Russia’s road to Ukraine started in Damascus”, The New Arab, 24 febbraio 2022.

[18] B. Mahmoud e Z. Mehchy, Normalization with the Syrian regime, Chatham House, 6 gennaio 2022.

[19] “Turkey to implement pact limiting Russian warships to Black Sea”, Reuters, 28 febbraio 2022.

[20] J. Burke, “Presence of Russian mercenaries in Mali risks bloody backlash, say experts”, The Guardian, 4 maggio 2022.

[21] J. Burke e E.l Akinwotu, “Russian mercenaries linked to civilian massacres in Mali”, The Guardian, 4 maggio 2022.

Image credits: President of Russian Federation (CC BY SA 4.0)

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