Ritrovo, tra le macerie, il punto in cui per me è tutto cominciato. E mi scopro orfana di me stessa - Linkiesta.it

2022-08-15 00:17:32 By : Ms. Yoga Liu

Se Kyjiv è la faccia della persona che ami, il resto dell’Ucraina è il suo corpo. Ferito, crivellato, bruciato, con le cicatrici che lasceranno il segno per sempre. All’uscita dalla capitale ci sono posti di blocco uno dopo l’altro, le montagne di sabbia, i blocchi di cemento, i cavalli di Frisia, chiamati anche ricci cechi. I ponti saltati in aria. La macchina prende un ponte provvisorio per arrivare dall’altra parte. Sul ciglio delle strade i resti delle macchine e i carri armati bruciati, come resti di animali feroci abbattuti. O almeno di quel che resta degli animali. La gente li porta via a pezzi come segno della vittoria. Anche i fiori che crescono in mezzo si alzano vittoriosi sopra quelle macerie. Solo pochi mesi fa su questa strada passavano lunghe colonne russe. Quel lungo verme che succhiava la vita di questi paesi e che all’Est dell’Ucraina continua ancora a succhiare.

Tra me e quella strada c’è solo la distanza di un finestrino della macchina, non c’è più la distanza di chilometri e di uno schermo del telefono. La quarta parete è caduta. Lo schermo è diventato il presente, qui-e-ora. Conosco a memoria ogni curva di quella strada, come il corpo della persona che ami, eppure è diversa con quelle macerie e quei resti di carri armati sui bordi della strada. Mi sto avvicinando al mio punto zero, al punto della partenza di tutte le partenze, quasi tutte, perché sono nata sfollata, e sono molto grata che a portarmi è la coppia di miei amici al volante e al sedile del passeggero e io, docile, sul sedile posteriore. Loro sono i miei due eroi, eroi ne ho tanti, ma loro sono quelli speciali. Quelli che non sono mai andati via, che sono rimasti a casa nei pressi della capitale, per aiutare l’esercito, per cucinargli i pasti, per fare i turni di notte, per togliere i punti dalle case, quelli che aiutavano l’artiglieria russa ad aggiustare il tiro. Sono rimasti a casa per mantenere i gatti del gattile e i cani randagi, per scendere ogni volta nel rifugio, portando con sé la gatta, per dormire vestiti per quasi due mesi o per non dormire proprio, per pensare se usare il gas per cucinare o non farlo perché in caso di bombardamento la casa poteva saltare in aria per distinguere i suoni: questa è antiaerea ucraina, questi invece sono i missili russi. Sono rimasti a casa per scrivermi che dopo mesi che era finita non riuscivano a sopportare tranquilli un temporale. Loro sono il mio esercito personale, i miei ZSU (Forze armate dell’Ucraina).

Qui c’è un passaggio in cui le parole per descriverlo sono spente. La videocamera del cellulare della mia amica è stata accesa per riprendere tutto e quel video lo tengo per me.

Qualche mese fa sarei potuta diventare d’un tratto orfana e lo ero diventata più volte quando non sentivo per giorni i miei genitori, perché i russi che avevano occupato le nostre zone avevano abbattuto tutti i ripetitori. Invece eccoli qua, i miei funghetti, eccoli qua che mi abbracciano. La metafora dei miei genitori come funghetti è apparsa in uno dei miei primi testi per Linkiesta (Le Noci) e l’avevo strappata con tanta sofferenza da me dopo anni che la tenevo dentro.

Poi c’è stato un momento come quello dei film a lieto fine. Una tavola da pranzo apparecchiata sotto la chioma verde dell’albero delle noci, descritto sempre nel testo “Le noci”, il borshch della mamma, preparato con tutta la verdura coltivata nel loro orto e i discorsi tra i miei genitori e i miei amici che vividamente si scambiavano la loro esperienza di vita durante la guerra. Come si nascondevano dai bombardamenti, come sopravvivevano senza la luce, senza acqua corrente, con una sola dispensa a disposizione perché i negozi erano stati derubati dai soldati russi. Com’era quando i russi con i fucili puntati si erano presentati a casa mia e con quegli stivali sozzi hanno calpestato i tappeti di casa mia, costruita mattone su mattone da mio nonno. Capisco, che certe cose le sento per la prima volta, perché i miei genitori avevano preferito tenermele nascoste. Loro parlavano e io ero solo un’ascoltatrice.

In sottofondo c’è la radio accesa, dove ogni trenta minuti passano le notizie dal fronte. E anche noi a tavola non abbiamo parlato di nient’altro che di guerra. Siamo tutti cambiati. Assieme alle nostre facce e corpi e alle facce e corpi delle persone che amiamo. Siamo tutti segnati nel profondo e a queste cicatrici non si vede ancora una fine.

I miei amici ripartono con il bagagliaio pieno di frutta e verdura raccolta al momento dall’orto dei miei genitori. E io rimango qui, al mio punto di partenza, non orfana di genitori, ma ormai orfana di una persona, di quella che ero e che non lo sarò mai più.

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